Dalla crisi della rappresentanza al protagonismo dei territori
L’agricoltura biologica deve rappresentare, soprattutto in Italia, il nuovo paradigma di un modello di società orientata alle esigenze dell’uomo prima che del mercato. Un siffatto mandato richiede almeno tre rivendicazioni fondamentali che dovranno riguardare:
- il riconoscimento dei meriti ambientali ai territori a forte vocazione biologica e creazione delle zone franche dalla chimica (chemical free);
- la riforma del sistema di certificazione con l’azzeramento del costo di certificazione a carico delle aziende;
- il potenziamento dei sistemi economici territoriali nella direzione dell’economia circolare e solidale, attraverso la logica dei “distretti del cibo”.
L’agricoltura biologica ha raggiunto oggi in Italia dei traguardi molto importanti, solo pochi anni fa neanche sognati. Oltre 75.000 aziende per una superficie coltivata di oltre 1.900.000 ha, un valore complessivo di produzione che già nel 2017 superava i 5,6 miliardi di €. Un risultato che solo qualche anno fa sembrava distante, forse irraggiungibile. In fondo la storia dell’agricoltura biologica, per come oggi la conosciamo è abbastanza recente. Dalla prima norma europea che ha dato “dignità anagrafica” al biologico (Regolamento CEE 2092/91) sono passati appena 28 anni. Un soffio se consideriamo che la nascita dell’agricoltura risale ragionevolmente al neolitico (circa 10.000 anni fa); e se la stessa per diventare “convenzionale” o “industriale” quale oggi si definisce nel nostro circuito di percezione culturale, ha dovuto attendere ben 9.940 anni. Infatti l’uso massiccio dei presidi chimici in agricoltura, per la nutrizione e difesa delle colture, l’uso di sementi cartellinate se non addirittura geneticamente modificate, il ricorso a lavorazioni spinte e l’uso di rapporti potenza/lavoro/energia troppo spropositati, è abbastanza recente. Risale mediamente ai primi anni cinquanta.
Eppure quando si parla di modello biologico nel mondo si mette in evidenza che questo rappresenta solo poco più dell’uno per cento di tutti i terreni agricoli coltivati nel mondo (43 milioni gli ettari di coltivazioni biologiche nei diversi continenti), con qualche commentatore grossolano o in mala fede che si affretta a sostenere che è “velleitario pretendere che il modello biologico possa sfamare il pianeta con una percentuale così irrisoria, che servono soluzioni avanzate, esogene e costose”. In realtà le percentuali come al solito non dicono tutto.
L’agricoltura “non convenzionale” o “non industriale” di fatto sfama già il mondo o meglio buona parte dell’umanità. I numeri questa volta ci aiutano a capire meglio, oltre la nostra supponenza. Consideriamo, infatti, che della popolazione mondiale, oggi stimata sui 7,7 miliardi di persone, circa il 12.6% non ha accesso alle risorse alimentari (rapporto ONU 2019). Esattamente: 821 milioni di persone soffrono la fame e oltre 150 milioni i bambini hanno ritardi nella crescita dovuti alla malnutrizione, malgrado un terzo del cibo prodotto nel mondo viene sprecato per un totale di 1,3 miliardi di tonnellate che sarebbero ampiamente sufficienti a sfamare tutti (dato FAO ).
È evidente quindi che non si tratterebbe solo di aumentare le rese per ettaro delle diverse colture, con metodi sempre più intensivi, quanto piuttosto consentire a tutti la possibilità di accesso al cibo sostenendo un modello di sviluppo autocentrato che consenta a tutti di garantire la propria sovranità alimentare in modo sostenibile e con un approccio endogeno. Ancora una volta i numeri ci vengono in aiuto: se consideriamo che circa l’80% della popolazione che ha accesso al cibo, si nutre di agricoltura familiare, per altro in gran parte condotta dalle donne la nostra idea generale delle cose cambia. Infatti, sempre secondo la FAO, le aziende familiari per l’autosostentamento rappresentano oltre il 90 percento di tutte le aziende agricole mondiali e producono circa l’80 percento – in termini di valore – del cibo consumato al mondo. In altre parole: circa l’80% della popolazione del mondo, che ha accesso al cibo, si nutre grazie all’agricoltura familiare. Che è ovvio ritenere corrisponda più ai principi dell’agricoltura biologica (meglio naturale ) che non al modello industriale. Questo, malgrado i tentativi di “inquinamento” operati a più mandate dai “signori delle royalty sui semi e della chimica”.
In altre parole l’agricoltura naturale rappresenta ragionevolmente almeno l’81% dell’agricoltura mondiale, se includiamo il nostro smilzo 1% di biologico certificato, ma provvede a sfamare buona parte dell’umanità. Ed inoltre lo fa al minimo impatto ambientale possibile, senza veleni e a bassa entropia.
Si può dire che il mondo, guidato semplicemente dai suoi bisogni primari ci indica la strada. Il modello di produzione biologica si dimostra efficiente e risolutivo sia rispetto al fabbisogno alimentare delle popolazioni, che rispetto alla necessità strategica di sostenibilità che oggi l’umanità consapevole chiede con forza.
Quanto conta l’Italia nel panorama generale del biologico. Quale contributo può dare all’umanità?
L’Italia è oggi al secondo posto in Europa per estensione certificata. Con i suoi 1,9 milioni di ettari (15% della SAU) si colloca dopo la Spagna (2,1 milioni di ettari ma solo il7% della SAU) e prima della Francia ( 1,7 milioni di Ha) e della Germania. Spagna, Italia, Francia e Germania assieme rappresentano oltre la metà (54%) del totale delle colture biologiche e dei produttori bio Ue.
12 milioni di ettari di superfici Ue dedicate alla coltivazione con metodo biologico certificato rappresentano ( 6.7 % della SAU dell’Unione).
Anche sul fronte economico i numeri incutono rispetto: 80 miliardi di euro di fatturato nel mondo. Con l’Europa seconda dopo gli USA con una fetta di 35 miliardi di euro. L’Italia, con i suoi 5,6 miliardi di valore nel 2017 (di cui 36,7% di esportazione), partecipa al 16% del valore complessivo europeo.
È dunque evidente che il “sistema Italia Bio” più per cocciutaggine dei produttori che per lucida strategia politica, rappresenta in Europa e nel mondo un grande laboratorio vivente di sostenibilità e di buona pratica di approccio alle risorse naturali e rurali, un modello virtuoso di gestione delle risorse con un trend in continuo aumento che malgrado le difficolta congiunturali generali e la recessione economica, rappresentano la più efficiente linea di resistenza contro il degrado rurale e costituiscono la più grande rete ecologica e culturale esistente nel vecchio continente. Un bel contributo se si considera che rappresenta circa il 21% della superficie mondiale bio, stimata sui 57,8 milioni di ettari certificati con 2,7 milioni di produttori coinvolti.
Ma l’Italia del Bio non è tutta luce. Certamente si distingue per l’eccellenza dei suoi produttori, ma è ancora carente nella valorizzazione del potenziale del mercato interno. Si consideri che la spesa alimentare pro-capite biologica, pur in aumento, si aggira ancora ad appena il 3,%.
Si palesa inoltre un colossale vuoto di rappresentanza, proprio ora che la legge di numeri racconta di un modello vincente e dei grandi risultati raggiunti. Fortemente ridimensionate le organizzazioni storiche, che comunque non sono mai stati di fatto legittimati dai numeri, oggi il settore è rappresentato da associazioni “spurie” o poco più che autoreferenziali. Le prime mettono assieme soggetti diversi della filiera: organismi di controllo, aziende, industria di trasformazione, grandi importatori; altri raccolgono i soli O.d.C. difendendo di fatto interessi di corporazione, altri si ostinano a sommare sigle e figure diverse della filiera per rappresentare l’idea di un movimento “bio” ancora da venire.
Se è vero che il principale punto di forza dell’agricoltura biologica, ciò di cui si nutre e su cui ruota il sistema produttivo aziendale, è l’uso prevalente dei “saperi”, la valorizzazione della sostanza organica, le rotazioni agrarie e la bio-diversità, assieme all’uso dei presidi naturali e limitatamente alle necessità i sistemi di monitoraggio e diagnostica innovativa e di previsione; il movimento del biologico italiano non può prescindere da una sua leadership culturale di livello. Oggi infatti non si tratta solo di sostenere un settore in continua crescita perché finalmente incontra una domanda dei consumatori sempre crescente di cibo sicuro e adeguato ai bisogni ambientali. Non si tratta di sostituire i presidi chimici con mezzi di produzione ammessi dalla normativa europea senza modificare la logica di gestione aziendale e le logiche di mercato; o di conquistare nuovi spazi di consumo sostenendo un’offerta via via adeguata alla domanda, magari incurante dei costi ambientali indiretti. Deve infatti preoccuparci l’aumento degli importatori certificati e il continuo ricorso ai paesi terzi per l’approvvigionamento di materia prima certificata per fare fronte all’aumento della domanda. I costi ambientali di trasporto e i prezzi di ingresso influenzati dal minor costo del lavoro in certe aree.
Il biologico sarà tale se l’approccio culturale che lo genera sarà all’altezza del suo compito e se la sua rappresentanza sarà adeguata alla necessità storica del momento. Se saprà rispondere all’esigenza di consolidare sui territori un sistema di produzione e di consumo basato sul valore della conoscenza, il rispetto dell’uomo e la valorizzazione delle risorse rinnovabili, secondo una concreta idea di sostenibilità e solidarietà.
Questa idea di agricoltura biologica, riteniamo, è l’unica che può rispondere alle sfide globali della contemporaneità, dai cambiamenti climatici, alla desertificazione, dall’esodo rurale alle grandi migrazioni e soprattutto la sicurezza alimentare e il diritto di accesso al cibo.
I sistemi commerciali globalizzati, oltre che animare meccanismi energivori e massificanti, si basano sul falso dogma del libero mercato. Non tengono conto delle peculiarità territoriali e delegano alle semplici regole dei costi e dei prezzi, il successo delle attività economiche delle aziende. Questo modo di agire ha creato una grande confusione nel mercato dei beni di consumo (abbigliamento, elettrodomestici, hitech… ) dando luogo a fenomeni di massicce delocalizzazioni della piccola e media industria e la scomparsa della micro impresa. Il cibo, ridotto alla stregua di una merce industriale qualsiasi, rischia la stessa sorte. Ma il cibo nutre l’uomo. È un bene, se vogliamo, a domanda rigida e come tale non dovrebbe mai andare in crisi, invece i primi due decenni del terzo millennio sono stati caratterizzati da crisi agroalimentari di grane portata. Basti solo pensare che malgrado il prezzo dei cereali sia mediamente al disotto del prezzo di costo quasi un miliardo di persone non hanno accesso al cibo. E la nostra atmosfera è sempre più carica di CO2 prodotta inseguendo l’illusione di aumentare le rese per Ha con l’uso di fertilizzanti chimici e di operare speculazioni finanziarie a forza di trasporti inter-continentali di cereali.
L’agricoltura biologica deve rappresentare, soprattutto in Italia, il nuovo paradigma di modello di società orientata alle esigenze dell’uomo più che del mercato. Preso atto che il mercato, da solo e nella sua eccezione classica, non risponde più alle esigenze dell’uomo. Il mercato globale è un’invenzione completamente artificiale. Non ha nessun riscontro in natura. Esiste solo perché turbato ad arte da interferenze finanziarie, trust e accordi bilaterali. Lo stesso corpo umano è fatto di cellule, “piccole unità territoriali parzialmente autonome”, che comunicano tra loro attraverso membrane semi permeabili. Non vi è scambio incontrollato di fluidi citoplasmatici. I territori, sono piccole cellule, ospitano porzioni di popolazione mondiale accumunate da una propria identità culturale e propri costumi, liberi di muoversi nel mondo ma con il sacro diritto di rimanere nella propria terra. A ciascun popolo deve essere assicurata la possibilità di soddisfare i propri bisogni alimentari secondo il proprio modello di consumo, dieta. O di scambiarsi le eccellenze con altri territori, secondo la propria volontà. Nessuno dovrebbe avere il potere o la facoltà di alterare questo sistema.
L’agricoltura biologica, più che rispondere alla crescente domanda di mercato di cibo sano, deve riconsegnare agli agricoltori il proprio ruolo sacro di produttori di cibo per la vita. Di grano, pane e vino e frutta per la libertà dei popoli. Libertà di continuare a vivere nella loro terra o scegliere liberamente di andare via per scambiare la propria umanità con altri uomini.
L’Italia del bio è allora chiamata a rispondere a questa esigenza.
Ma ritornando ai numeri è bene ricordare che le 75.873 aziende biologiche che custodiscono i 1.9 milioni di ha certificati in Italia (15% della SAU coltivata), contribuiscono già agli obiettivi di sostenibilità generale del Paese e del pianeta. A ben guardare l’incidenza della superficie biologica sul totale SAU in Italia, presenta uno dei valoro più alti a livello mondiale. Basti pensare che negli USA è biologica meno dell’1 % della SAU, in Canada siamo 1,3%, in Argentina il 2,3% ed in Australia il 4.2%.
Un poco diverso nei paesi del vecchio continente dove siamo superati in termini di incidenza percentuale da Estonia, Austria e Svezia, oltreché dal Liechtenstein. La cui superficie in assoluto è comunque molto più limitata della nostra. La cosa cambia se consideriamo il fatto a livello di macro-aree nazionali. Si pensi che Sicilia, Puglia, Calabria, Sardegna, assieme totalizzano 1.013.942 Ha e rappresentano oltre il 53% della superficie biologica nazionale (Ha 1.908.653 nel 2017 – fonte SINAB), rappresentando di fatto la più importante macro area biologica del mondo. In altre parole il più ampio laboratorio di sostenibilità delle “terre emerse”. La sola Sicilia contribuisce con il suo 22% alla SAU nazionale e vanta ben il 31% della propria SAU regionale certificata in biologico. Seconda solo alle Isole Falkland e Samo ( che comunque sono di ben più modesta entità).
Insomma il biologico italiano ha tutte le carte in regola per candidarsi a guidare un grande movimento per la “civiltà della terra” dei diritti della natura e della libertà dei popoli. Per elevare il modello di produzione biologica al rango di sistema culturale di produzione e di consumo improntato ai principi della sostenibilità e della solidarietà.
Emerge la necessità di una rappresentanza capace di interloquire con i decisori istituzionali e politici per contaminare in modo creativo le attuali politiche del territorio, riconoscere con atti concreti ai contadini e agli agricoltori il ruolo di custodi del territorio, della biodiversità e della stabilità idrogeologica.
Un siffatto mandato richiede almeno tre rivendicazioni fondamentali che dovranno riguardare:
1) il riconoscimento dei meriti ambientali ai territori a forte vocazione biologica e creazione delle zone franche dalla chimica (chemical free) ; 2) la riforma del sistema di certificazione con l’azzeramento del costo di certificazione a carico delle aziende ; 3) il potenziamento dei sistemi economici territoriali nella direzione dell’economia circolare e solidale, attraverso la logica dei “distretti del cibo”.
Rispetto al primo punto bisognerà sostenere i territori dove con maggiore intensità e incidenza è adottato il metodo biologico, cui vanno riconosciuti i meriti ambientali nazionali in termini di contrasto ai cambiamenti climatici, difesa della biodiversità e salvaguardia della rete idrologica dall’aggressione dei residui chimici di uso agricolo. A favore di questi territori bisognerà prevedere delle misure di intervento, dirette e indirette, in ambito alle prossime programmazioni comunitarie, atte a potenziare concretamente la rete delle aziende e incoraggiare la permanenza della popolazione rurale nei territori. Soprattutto bisognerà operare una sorta di grande “conferenza di servizi” capace di sostenere e velocizzare tutte le fasi autorizzative necessarie a sviluppare nuove attività collegate allo sviluppo delle economie locali collegate al biologico e alla fruizione dei territori. Bisognerà intraprendere una efficace interlocuzione con i decisori istituzionali al fine di prevedere i necessari provvedimenti normativi idonei ad istituire delle zone franche territoriali (chemical free ) dove sia inibito l’uso di presidi chimici di sintesi in agricoltura. Altra priorità assoluta riguarda la revisione dell’attuale sistema della certificazione che bisognerà rendere più efficiente ma meno gravoso per le aziende, più trasparente e meno impegnativo dal punto di vista burocratico. Ma soprattutto bisogna renderlo gratuito per le aziende. In linea con quanto detto in merito al lodevole ruolo del sistema biologico italiano, il costo di certificazione ( che in Italia supera ormai i 50 milioni di € anno) non dovrà assolutamente gravare sulle aziende, poste che questo sono già gravate dai maggiori costi di produzione dovuti alle difficoltà di operare con il metodo biologico all’interno di un sistema economico prevalentemente improntato alla logica del “convenzionale”. Le aziende bio sono, per altro, le uniche in seno al sistema produttivo agro alimentare nazionale che producono in direzione degli obiettivi strategici europee in materia di ambiente, di buone pratiche. E soprattutto contribuiscono con le loro aziende al contrasto attivo ai cambiamenti climatici e alle emergenze ambientali e sociali.
Altro punto di rivendicazione dovrà riguardare il sostegno reale alla politica dei distretti del cibo e delle economie territoriali. Su cui si dovrà richiedere ai decisori istituzionali azioni concrete ed estese per favorire lo sviluppo del mercato interno e locale. La territorialità come valore sociale e diritto delle comunità. La filiera corta e il GPP come modalità ordinaria in tutte le attività che riguardano la spesa pubblica e l’azione di orientamento culturale dei modelli di consumo verso la direzione della dieta mediterranea e dell’alimentazione di qualità per la riduzione dei costi sociali in tutti i casi di prevenzione di malattie cronico degenerative collegabili alla alimentazione non corretta e ai modelli di vita non adeguati agli standard di qualità.
Primo estensore
Calogero Alaimo Di Loro (Lillo)
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